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Insights 14 Feb 2022

Il punto sul mercato di Antonio Tognoli

Spesso ci indebitiamo con il futuro per pagare i debiti con il passato (K. Gibran).

Nessun dato sensibile in uscita oggi. Il piatto forte sarà domani. Negli ultimi decenni il mondo è cresciuto grazie al debito che è ormai prossimo a toccare i 300 triliardi di dollari, ovvero il 380% del PIL globale (nel 2019 era il 320%). Nei paesi dell’area euro, a causa delle misure di emergenza per contrastare il coronavirus, il debito a fine 2021 sarà di 11,3 trilioni di euro, pari al 100,5% del PIL. Tutti i principali paesi Europei hanno aumentato il debito e il deficit negli ultimi due anni. Ci sono stati tuttavia pochi segnali di allarme da parte degli investitori, grazie al fatto che il costo del debito si è mantenuto contenuto quale effetto dei programmi di acquisto delle banche centrali. La politica monetaria si va tuttavia facendo sempre meno accomodante e i tassi di interesse sono prossimi ad un rialzo. Prendiamo per esempio l’Italia che, dopo la Grecia, è il paese Europeo con il più alto rapporto debito/PIL: 156,3% a fine 2021 (è stato così elevato solo nel 1920), tendente al 150% (Visco). Gli investitori non si preoccupano se sanno che lo stato potrà far fronte alla spesa per interessi aumentando le tasse e/o riducendo le spese. Se tuttavia il livello del debito è elevato e l’avanzo primario non è sufficiente per determinarne una tendenza alla riduzione in rapporto alla dimensione dell’economia, allora cominciano i problemi. La situazione è più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato di avanzo primario. Questa è la situazione Italiana, anche se durante gli anni di politica monetaria accomodante è continuata l’opera di aumento della vita media del debito, che ora è 7,7 anni, a vantaggio del suo futuro costo: tra il 2021 e il 2030 con un spread medio di 120 punti, stimiamo che la spesa complessiva per gli interessi sarà di 550 miliardi di euro circa, (nel decennio 2010 – 2019 è stata 727 miliardi di euro).

La situazione Italiana degli ultimi 25 anni evidenzia un tasso di interesse maggiore del tasso di crescita del PIL (trascuriamo quello straordinario del 2021), una spesa pubblica e una pressione fiscale sostanzialmente immodificabili. La differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita appare inoltre endogena: una condizione di scarsa fiducia nella capacità dello stato di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei detentori dei titoli pubblici spinge verso l’alto il tasso di interesse e verso il basso il tasso di crescita. La prospettiva del default (che grazie a Draghi sembra allontanarsi) o di maggiori tasse per evitare il default, tiene lontani non solo gli investitori finanziari, ma anche le imprese, nazionali ed estere (le Italiane delocalizzano e quelle estere se ne vanno dall’Italia), e deprime gli investimenti in capitale produttivo. Si genera così un circolo vizioso, in cui la bassa crescita interagisce con l’alto debito e i due problemi si aggravano a vicenda. Quando la crescita economica mondiale rallenta, il paese comincia a scricchiolare (vedi 2008) e quelli con poco “spazio fiscale” sono costretti ad importare la recessione, che peggiora ulteriormente il rapporto debito/PIL e rende necessarie politiche restrittive che aggravano i problemi dell’economia reale, causano fallimenti delle imprese, disoccupazione e aumento della povertà e di tutti gli indicatori di disagio sociale (sembra un situazione nota?).

Per mettere in sicurezza i conti del paese la teoria economica suggerisce un avanzo primario fra il 3% e il 4% l’anno, mantenuto per molti anni. Cosa peraltro difficile da realizzare. Nessun movimento politico accetterebbe infatti di essere etichettato come il partito delle tasse e/o di drastici tagli alla spesa nell’ordine di quelli che sarebbero necessari. Va detto che anche il Fondo monetario giunge comunque alla conclusione che avanzi primari del 3-4% non sono realistici per l’Italia.

Esistono soluzioni alternative? Certo che esistono. Negli ultimi anni sono state avanzate varie proposte di mutualizzazione dei debiti pubblici dell’Eurozona, alcune peraltro molto fantasiose e poco realizzabili. La proposta più influente è stata quella avanzata nel 2011 dal Consiglio degli esperti economici tedeschi che, dieci anni dopo e opportunamente aggiornata, da un punto di vista strettamente economico potrebbe anche funzionare. L’idea è quella di mettere i debiti in eccesso la soglia del 60% in un Fondo comune (detto ERF, European Redemption Fund) che si finanzia sul mercato per acquisire i debiti degli stati membri. In cambio, gli stati più fragili si sottoporrebbero a condizioni severe, volte a eliminare i debiti al di sopra della soglia e a far sì che il Fondo possa cessare l’attività nell’arco di 20–25 anni. Sono previste sanzioni, quali la cessazione dei riacquisti dei titoli in scadenza, per evitare che i paesi membri vengano meno agli impegni assunti in materia di politiche di bilancio. Un’altra via sicuramente meno drastica, è quella di aumentare il denominatore (il PIL) mantenendo stabile il debito, fattibile però solo aumentando la produttività dei fattori di produzione (capitale e lavoro), la qualità dei prodotti e l’export.

Insomma, il debito pubblico è una palla al piede che non ha consentito al PIL Italiano di crescere nell’intorno del suo potenziale (2-2,5%) ma solo dello zero virgola e per questa via rende tutti noi sempre più poveri. Per questo diventano importanti e strategici gli oltre 220 miliardi di investimenti del PNRR, che al momento sembrano i soli in grado di rimettere in moto il paese. Esaurito l’effetto PNRR e per evitare di tornare alla crescita dello zero virgola, la spinta dovrà tuttavia arrivare anche dall’investimento degli ingenti capitali privati dormienti sui conti correnti e che dovranno essere indirizzati verso l’economia reale.