Il punto sul mercato di Antonio Tognoli
Nel mezzo delle difficoltà nascono le opportunità (A. Einstein).
In uscita oggi dati USA importanti per i mercati: alle 14:30 i prezzi alla produzione MoM di dicembre (stima 0,4% contro 0,8% di novembre) e le richieste di sussidi alla disoccupazione WoW (stima 210k unità contro 207k della settimana precedente). La FED è alle prese con un difficile dilemma: ridurre l’inflazione sacrificando la crescita economica e l’occupazione, oppure lasciare correre il PIL e l’occupazione accettando però una elevata crescita dei prezzi. Gli elementi centrali da monitorare sono i salari e l’occupazione. I salari, perché negli ultimi 12 mesi sono cresciuti del 5% circa (calcolato utilizzando la parità del potere d’acquisto che tiene conto anche del costo della vita) e non ci sono aspettative che possano ridursi nel 2022. L’occupazione, perché i posti di lavoro creati lo scorso dicembre sono stati solo 199.000, con un tasso di disoccupazione che però è sceso al 3,9% (al di sotto del tasso naturale, stimato intorno al 4%), confermando la flessione secolare del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, sceso costantemente negli ultimi 20 anni, passando dal 67,3% del 2000 al 61,6% del 2020.
Con la crescita dei prezzi che erode inesorabilmente il potere d’acquisto, difficilmente il costo del lavoro appare comprimibile. Anzi. L’inflazione attuale, sostenuta da un aumento dei costi delle materie prime e del lavoro, genera una crescita dei prezzi di vendita di beni e servizi che a loro volta influiscono sui costi di produzione di altri beni e servizi influenzandosi reciprocamente. La soluzione per ridurre l’inflazione indotta dalla maggiore disponibilità salariale è quella di ridurre il loro potere d’acquisto, ma con le elezioni di midterm alle porte non credo che accadrà. Difficile però governare il sistema monetario avendo contemporaneamente come obiettivo la crescita economica, il controllo dei prezzi e l’occupazione.
I mercati azionari si spaventano dell’inflazione se i tassi ufficiali si muovono. Se però le banche centrali li lasciano invariati, l’inflazione è come se non esistesse perché i tassi reali continuano a rimanere negativi. Questi ultimi hanno portato ad uno sganciamento dei prezzi da quelli che si definiscono i fondamentali degli assets. Ma se le banche centrali sono impegnate a rallentare l’inflazione alzando i tassi (la probabilità di un aumento a marzo è del 75%), lo scenario potrebbe cambiare molto rapidamente. Tassi d’interesse reali meno negativi, un dollaro più forte e una crescita economica in frenata sarebbero infatti un disastro per i prezzi degli asset rischiosi con valutazioni elevate. L’ipotesi di tassi reali che si avvicinano velocemente allo zero innalzerebbe il rischio intrinseco del mercato che, a parità di tutte le altre condizioni, non troverebbe altra via che ridurre i prezzi per adeguare il rendimento richiesto al maggior rischio sopportato. Non siamo tuttavia convinti che la FED abbia interesse a devastare i mercati finanziari solo per combattere l’inflazione.
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