Il punto sul mercato di Antonio Tognoli
Chi sbaglia di rado, di rado scopre qualcosa. (J. Templeton)
Giornata densa di avvenimenti importanti quella di oggi. Si inizia alle 11:00 con il PIL Europeo del 4Q (stima 0,3% contro 2,2% del 3Q), alle 14:00 i prezzi al consumo YoY di gennaio della Germania (stima 4,3% contro 5,3% di dicembre) e infine alle 15:45 il PMI Chicago di gennaio (stima 62,5 punti contro 63,1 di dicembre). Tutti gli indicatori sembrano confermare il raffreddamento della crescita economica tra i cui effetti dovrebbe esserci quello di smorzare lo schock dell’offerta a beneficio della flessione della crescita dei prezzi. Questo continua ad essere il tema economico d’inizio d’anno. Sul fronte geopolitico, secondo le dichiarazioni degli attori in campo, nessuno vuole che si scateni un conflitto dai risvolti imprevedibili, lasciando ampio spazio alle diplomazie. Scecherando queste due componenti e aggiungendo l’aumento dei tassi in USA, che cosa ne ricavano i mercati? Un aumento della volatilità, come abbiamo diverse volte messo in luce, e quindi del rischio sistematico che deve trovare il naturale complemento in rendimenti più elevati. Ma i mercati si interrogano anche sulle difficoltà delle banche centrali, FED in testa, di fornire ai mercati la corretta quantità di moneta necessaria per consentire di pilotare il sistema verso una crescita sostenibile del PIL, mantenendo nel contempo un adeguato livello di occupazione. In questo senso è da leggersi la flessibilità più volte indicata da Powell.
Secondo i classici modelli di investimento, l’aumento dei tassi non favorisce l’investimento azionario per via che i flussi di cassa futuri vengono scontati ad un tasso più elevato. L’evidenza mostra però il contrario. Secondo le nostre elaborazioni, negli ultimi 30 anni in seguito ad un aumento di 50 bp dei tassi di interesse, l’indice S&P 500 è risultato mediamente in rialzo del 18% nei successivi 12 mesi. Tranne che in un caso, in cui poi la FED ha dovuto fare marcia indietro. Questa volta ci sono però due variabili diverse rispetto agli aumenti dei tassi avvenuti in passato e la prima riguarda il perché i tassi sono stati aumentati. La FED aumenta i tassi quando la ripresa economica è troppo forte e scatena l’inflazione: è quindi un’inflazione da domanda. La ripresa post pandemica ha invece evidenziato una inflazione da costi, materie prime ed energia in testa, sulla quale la FED può fare ben poco. Il secondo motivo riguarda la politica monetaria, che prima degli aumenti precedenti è stata accomodante solamente una volta e guarda caso proprio quando l’S&P 500 non è cresciuto. Del resto Powell stesso ha detto che non è compito della FED sostenere l’andamento dei mercati, salvo però fare marcia indietro l’ultima volta quanto i mercati gli hanno voltato la faccia (non escludo che un raffreddamento degli indici potrebbe quindi essere voluto). Ai livelli attuali di indice, soprattutto in USA, crediamo che occorra tuttavia un po’ di tempo prima che il testimone della crescita dei prezzi delle azioni passi dalle politiche monetarie ultra espansive alla crescita degli utili, anche se tutto sommato i recenti risultati delle società sono, tranne alcuni casi, superiori alle attese degli analisti. Ciò significa mercati ancora altamente volatili. Ribadiamo che la scelta dovrebbe cadere sui titoli value anche se la distinzione con quelli growth si va facendo sempre più sottile (Apple con 366 miliardi di dollari di fatturato e 100 mld di utile netto è titolo value oppure growth). In ogni caso, l’approccio che riteniamo corretto è quello botton up, andando a privilegiare i titoli di quelle società che producono cassa, sono market leader e hanno una redditività media superiore e sostenibile rispetto a quella del proprio settore.
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