Il punto sul mercato di Antonio Tognoli
Lasciatemi dire una cosa che ho contro Mosè. Ci ha portato quarant’anni in giro per il deserto per condurci all’unico posto nel Medio Oriente che non ha petrolio (Golda Meir).
Prezzi al consumo YoY di settembre in Europa oggi alle 11 (il dato preliminare è stato del +3,4% contro +3% di agosto) e scorte di petrolio WoW USA alle 16 (stima 0,7 mln di barili contro 6,1 mln). Entrambe costituiscono i pezzi del puzzle che consente alle banche centrali di costruire la politica monetaria.
In Europa da gennaio i prezzi al consumo hanno continuato a crescere per effetto soprattutto dell’energia che solo a settembre ha fatto registrare un +17,4% YoY e +1,3% rispetto ad agosto. Tra gli investitori, l’idea che l’inflazione sia sempre meno temporanea si fa via via più concreta, nonostante la BCE ritenga che si tratti di rialzi temporanei (peraltro senza chiarire quanto temporanei). Potrebbe essere così, se la variazione di prezzo delle materie prime non energetiche fosse isolata. Ma il rialzo del prezzo dell’energia si porta dietro una strisciante crescita dei prezzi di tutti gli altri beni che non consente, una volta esaurito il rimbalzo post pandemico, un aggiustamento vero il basso.
Se la crescita economica è stabile e robusta, non ci sono grossi problemi se i prezzi seguono lo stesso trend perché i maggiori costi unitari potrebbero non essere traslati sui consumatori in quanto compensati da minori costi medi derivanti dall’espansione e dal riassorbimento, relativamente rapido, di risorse non utilizzate.
Se invece i prezzi aumentano in un paese che strutturalmente cresce pochissimo, qualsiasi fenomeno inflazionistico peggiorerebbe sia le aspettative sia il potere d’acquisto del reddito e della ricchezza. Considerando un ulteriore aumento del 20% dell’energia e delle materie prime alimentari, si arriva ad una previsione per il 2022 di crescita dei prezzi del 2,5% in Germania e del 3,2% in l’Italia. Sarebbe lecito chiedere alla BCE una azione restrittiva (i falchi fanno il loro mestiere).
E siamo al petrolio. Così come il rimbalzo dell’economia è straordinario, anche la crescita del prezzo al barile è straordinaria. Ci sono però due elementi che complicano il rapporto tra domanda, offerta e scorte: la politica e il sentiment/speculazione. La domanda USA di aumentare la produzione indirizzata all’OPEC è stata rispedita al mittente. Non rimane quindi che riportare il petrolio iraniano sul mercato. E questa è proprio la decisione politica da prendere. Non siamo però così sicuri che ci sia tutta questa fretta. Le aziende di scisto infatti hanno spinto il sentiment di mercato in modo da far salire i prezzi in due modi: 1) non tornando ai livelli di produzione pre-Covid e 2) affermando che non aumenteranno la produzione neanche in caso di prezzi più alti di quelli attuali. Prima del Covid la produzione USA di scisto USA era pari a 13,1 mbpd, ora siamo a 11,3 mbpd (il mercato stimava una produzione sopra 13,1 mbpd).
Se guariamo ai dati, è vero che la domanda è aumentata nel corso dell’estate e questo ha fatto scendere le scorte di greggio e benzina (come tutte le estati). Ma il trend si sta invertendo, tanto è vero che secondo GasBuddy, la domanda di benzina è scesa a settembre del 3,35%. Inoltre, secondo l’EIA l’utilizzo delle raffinerie a fine ottobre era pari all’89,6% ad indicazione che non esiste al momento e nell’immediato futuro una carenza di scorte. Da segnalare che anche la produzione del Golfo del Messico, colpita dall’uragano Ida ad agosto e che aveva fatto salire i prezzi anche a settembre, è tornata in piena attività. Non sono quindi giustificati i rialzi di ottobre.
Difficile dire quale possa essere il prezzo “corretto” del petrolio. Il range individuabile con il PIL dei principali paesi occidentali in crescita tra il 2% – 2,5%, è compreso in un range tra i 45 – 65 dollari al barile.
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