Il punto sul mercato di Antonio Tognoli
Il mondo sta cambiando molto velocemente. Il grande non batterà più i piccoli. Sarà il veloce a battere il lento (R. Murdoch).
Vendita al dettaglio USA di settembre in uscita oggi alle 14:30 (stima -0,2% contro +0,7% di agosto) e la fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan di ottobre alle 16:00 (stima 73,8 punti contro 72,8 di settembre). Le attese indicano un raffreddamento della crescita dei prezzi al dettaglio e un conseguente aumento della fiducia dei consumatori. Visti i dati macroeconomici precedenti relativi soprattutto all’aumento del prezzo dell’energia cui fanno seguito quelli delle materie prime e dai cui dipendono in gran parte i prezzi gli altri beni, abbiamo qualche dubbio soprattutto sul rallentamento dell’inflazione. Come abbiamo più volte sottolineato, il rischio inflazione non è da sottovalutare perché mina la sostenibilità della crescita economica, oltre a ridurre i saldi monetari reali degli operatori, aumentando i costi di transazione e generando per questa via effetti depressivi sugli investimenti.
SI potrebbe obiettare che se il valore reale della moneta diminuisce a causa appunto dell’inflazione, un soggetto molto indebitato (i.e. l’Italia) e che deve restituire il debito contratto, ne consegnerà una quantità apparentemente uguale ma sostanzialmente minore in termini reali. Chi presta denaro a tassi vicini allo zero, subisce una perdita che sarà tanto maggiore quanto più lungo è il periodo di durata del prestito (i.e. i mutui a tasso fisso molto basso concessi dalle banche). Chi concede un prestito ottenendo il compenso di un interesse, per mettersi al riparo dall’inflazione deve stabilire un tasso di interesse sulla somma prestata almeno pari al tasso di inflazione previsto.
I monetaristi sostengono che l’inflazione sia la conseguenza di una politica monetaria espansiva, che comporta una quantità esagerata di moneta a disposizione di famiglie e/o imprese. Parliamo di inflazione da costi quando i prezzi dei beni aumentano perché salgono i costi delle materie prime, o il costo del lavoro o dei macchinari. Se le imprese non riescono ad ammortizzare l’aumento con un incremento della produttività, saranno obbligate ad aumentare i prezzi di vendita dei beni prodotti, pena una riduzione della redditività, contribuendo alla spirale aumento costi/prezzi.
Ci sono sostanzialmente due modi per combattere l’inflazione: quello della politica monetaria (sostenuto dai monetaristi) e quello della politica dei redditi (sostenuto da Keynes).
Nel primo caso le banche centrali riducono la qualità di moneta in circolazione, per esempio decidendo di emettere una quantità minore di banconote, aumentando il tasso di sconto ufficiale, innalzando il coefficiente di riserva obbligatoria o vendendo titoli di stato. Secondo Keynes invece occorre cercare di non far aumentare i salari, altrimenti aumenterebbero i consumi e gli investimenti. Altre forme di controllo sull’inflazione riguardano la politica fiscale: una diminuzione delle imposte indirette genera una riduzione dei prezzi, perché esse gravano sul prezzo dei beni. Non vale per quelle dirette dove la loro diminuzione aumenta il reddito disponibile e quindi i consumi (in realtà anche il risparmio). Per ridurre l’inflazione occorrerebbe aumentare le imposte dirette (IRPEF, IRES) e diminuire quelle indirette (IVA). Anche la spesa pubblica può concorrere alla diminuzione dei prezzi, attraverso la diminuzione delle spese dello Stato, diminuendo la spesa corrente (interessi passivi o salari) e riducendo la spesa in conto capitale (costruzione di opere pubbliche). Chiaramente tutto questo ci porta a dover accettare un aumento della disoccupazione.
Le banche centrali e i governi stanno navigando a vista, cercando di dosare la quantità di moneta in modo da non strozzare la ripresa economica, pilotare il tasso di crescita del GDP verso il suo potenziale (tra il 2% e il 2,5%), accompagnando una “sana” crescita dei prezzi. Tutto questo, nel mezzo di una pandemia che non è ancora finita. Le politiche monetarie e fiscali non convenzionali hanno molto ben sostenuto dal “whatever it takes” le economie nel mezzo della tempesta alimentata dalla globalizzazione finanziaria. Non ci sono ragioni, nemmeno squisitamente politiche, per le quali non dovrebbero continuare a farlo. Certo è sempre possibile che nel cammino qualche intoppo possa sempre arrivare. Per il momento gli investitori sono relativamente calmi, pronti però a cogliere qualsiasi occasione si possa presentare.
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