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Insights 17 Mag 2022

Il punto sul mercato di Antonio Tognoli

L’italiano non s’organizza: s’arrangia (R. Gervaso).

PIL Europeo del 1Q22 in uscita oggi alle 11:00 (stima 5% contro 4,7% del 1Q21), vendite al dettaglio USA MoM di aprile alle 14:30 (stima 0,8% contro 0,5% di marzo) e produzione industriale USA MoM di aprile alle 15:15 (stima 0,4% contro 0,9% di marzo).

La Commissione Europea ha tagliato le stime di crescita dell’Italia per il 2022 al 2,4% (dal 4,1%) e per 2023 all’1,9% (dal 2,3%) a causa degli effetti della pandemia e soprattutto della guerra fra Russia e Ucraina. Inutile ricordare le motivazione che ormai conosciamo tutti molto bene. Ma potrebbe non essere finita qui. Sempre la Commissione, nel confermare che la maggior parte della crescita di quest’anno è dovuta ad un effetto di trascinamento della ripresa straordinaria dello scorso anno, ha infatti ribadito che le prospettive dell’economia rimangono soggette a forti rischi al ribasso, considerato che l’Italia è tra i maggiori importatori di gas naturale russo e quindi potrebbe essere gravemente colpita da eventuali e improvvise interruzioni delle forniture. Difficile poi dire quanta parte della crescita di questi due anni sia da attribuire agli investimenti del PNRR , anche se probabilmente saremmo prossimi allo zero. Crescita del PIL in riduzione con aspettative di rialzo per l’inflazione, che nel 2022 è stimata nell’intorno del 6% (3,8% la stima precedente) mentre nel 2023 dovrebbe attestarsi al 2,3% (1,6%).

Notizie più confortanti arrivano invece sul fronte del deficit e del debito pubblico, previsti entrambi in positiva riduzione anche se rispetto a tutti gli altri paese Europei, rimangono su livelli elevati e quantomeno di allarme: rispetto al PIL, il deficit si ridurrà al 5,5% nel 2022 (dal 7,2% del 2021) e al 4,3% nel 2023, mentre il debito si ridurrà al 147,9% nel 2022 (dal 150,8% del 2021) e 146,8% nel 2023. E chiaro ed evidente a tutti che con numeri come questi lo spazio per manovre fiscali espansive è quasi nullo. Tanto è vero che lo stesso commissario all’economia, Paolo Gentiloni, ha avvertito il governo Italiano sul fatto che misure di sostegno in deficit non sarebbero una scelta prudente. Lo spazio di manovra è quindi collegato alla capacità del Governo di collegare misure di supporto che devono essere mirate e temporanee, a fonti di entrate (leggi p.e. le misure di tassazione straordinarie sugli extraprofitti energetici e il parallelo sostegno ai consumi energetici). Chiaro quindi che difficilmente saranno tollerati scostamenti in deficit.

Non entriamo in considerazioni squisitamente politiche (anche se gli investitori lo fanno), ma ci limitiamo ad osservare che sono ormai prossime le elezioni amministrative e mancano circa 12 mesi alle elezioni politiche il cui esito si preannuncia quantomai incerto. Il punto è capire l’autonomia della politica economica che avrà il nostro paese. La politica monetaria è infatti decisa a livello Europeo, mentre quella fiscale come abbiamo visto ha le armi scariche. E’ lecito quindi per gli investitori supporre che probabilmente il nuovo esecutivo avrà poca autonomia in tema di politica economica. Del resto le cose da fare non hanno colore politico, ma sono “cose da fare”.

Cosa potrebbe fare la politica fiscale per controllare l’inflazione, è presto detto. Una diminuzione delle imposte indirette consentirebbe una riduzione dei prezzi, perché esse gravano sul prezzo dei beni. Non vale per quelle dirette dove la loro diminuzione aumenta il reddito disponibile e quindi i consumi (in realtà anche il risparmio). Per ridurre l’inflazione occorrerebbe quindi aumentare le imposte dirette (IRPEF, IRES) e diminuire quelle indirette (IVA). Anche la spesa pubblica potrebbe concorrere alla diminuzione dei prezzi attraverso la diminuzione delle spese dello Stato, diminuendo la spesa corrente (interessi passivi o salari) e riducendo la spesa in conto capitale (costruzione di opere pubbliche). Chiaramente tutto questo ci porta però a dover accettare una riduzione della crescita economica e un aumento della disoccupazione.

A questo punto la domanda: ma allora conviene investire in Italia? Risposta: oggi più che mai. Intanto perché la maggior parte delle risorse del fondo NGeu è destinata proprio al nostro paese (oltre 190 mld) e poi perché lo stato ce ne mette altri 30 di miliardi, arrivando quindi ad oltre 220. Decisamente importanti sono però le ricadute positive del PNRR destinate, almeno nelle intenzioni, a cambiare radicalmente il volto della nostra economia a medio e lungo periodo. Chiaro quindi che gli investimenti devono essere indirizzati verso progetti che privilegino la crescita economica sostenibile. Con tutta questa potenza di fuoco a disposizione, dove sarebbe meglio investire? La risposta è nelle imprese maggiormente coinvolte dagli investimenti del NextGenerationEU e per quanto riguarda l’Italia del PNRR. Imprese che hanno quindi difronte un’opportunità unica di sviluppo, difficilmente ripetibile nei prossimi 50 anni. Sono tutte quelle imprese che operano nel settore della digitalizzazione di prodotto ma anche di processo, della cyber security, della trasmissione di dati su rete fissa o mobile. Ma anche tutte le imprese che operano nella rivoluzione verde (occorre produrre più energia per affrancarci dalla Russia), da quelle locali a quelli nazionali, senza dimenticare tutte quelle che operano nel settore delle infrastrutture e della salute. Il discorso vale un po’ per tutte le Borse Europee, ma la parte del leone crediamo tocchi a Piazza Affari: per fare un esempio, nel solo settore della digitalizzazione all’Italia toccano, come abbiamo, visto 40 miliardi di euro, alla Spagna 24, alla Germania 12 e alla Francia 10.