Il punto sul mercato di Antonio Tognoli
Il PIL non sarà mai altruista (F. Caramagna)
Philly Fed di marzo in uscita oggi alle 13:30 (stima 15 punti contro 16 di febbraio), richiesta dei sussidi alla disoccupazione WoW USA alle 13:30 (stima 220k contro 227k della scorsa settimana) e la produzione industriale USA MoM di febbraio (stima 0,5% contro 1,4% di gennaio).
Tutto in linea con le attese: la FED ha alzato i tassi d’interesse di 25bp, portandoli allo 0,25-0,50 %, indicando anche come appropriati ulteriori rialzi. Inoltre Powell deciderà già forse nel meeting del 4 maggio la riduzione dei portafogli di titoli acquistati, pari attualmente ad oltre 9 trilioni di dollari. Le indicazioni dei singoli governatori puntano ora a un tasso mediano compreso tra l’1,75 e il 2%, pari ad altri sei rialzi quest’anno, ovvero un rialzo da 25 bp in ciascuna delle prossime riunioni fino a dicembre (nell’ultimo meeting erano solo tre). Per il 2023 sono invece indicati altri quattro rialzi da 25 bp, fino al 2,75-3%, mentre nel 2024 i Fed funds potrebbero restare fermi. Powell prevede un’inflazione più alta di quanto indicato a dicembre: 4,3% per il 2022 (dal 2,6%), 2,7% per il 2023 (dal 2,3%) e 2,3% per il 2024 (dal 2,1%). Secondo Powell è probabile che l’inflazione inizi a scendere a partire dal 2023 (prima dello scoppio della guerra era prevista una discesa nella seconda metà del 2022).
Le previsioni della FED indicano un’economia solida e in grado di sopportare una restrizione monetaria, con forti progressi nell’occupazione ma con un mercato del lavoro estremamente teso (ci sono 1,7 posti vacanti per ogni disoccupato). Economia solida ma PIL in frenata nel 2022 rispetto alle previsioni precedenti (+2,8%, dal 4% indicato a dicembre) e conferma per il 2023 al 2,2% e 2% per il 2024. Secondo Powell la frenata del 2022 è chiaramente dovuta agli effetti della guerra, ma non va enfatizzata, visto che la crescita si mantiene al disopra di quella potenziale, intorno all’1,75% e con una bassa probabilità di recessione.
Con questo scenario, secondo la nostra analisi, sono da preferire aziende dell’energia e dei materiali, insieme ai settori difensivi dell’assistenza sanitaria e dei servizi pubblici. Così come le industrie di prodotti chimici per l’agricoltura (vista la tensione nei mercati dei fertilizzanti). Ma anche gli immobili, che storicamente hanno offerto una buona protezione in periodi inflazionistici. In ogni caso crediamo che l’investimento – a medio termine – debba privilegiare le società che possono aumentare i prezzi a fonte di una crescita dei costi di produzione (ovvero quello che producono cassa e hanno una redditività superiore a quella media del proprio settore). Se l’inflazione dovesse rimanere alta gli investitori potrebbero anche guardare a strategie alternative, come per esempio gli hedge fund, per proteggersi dall’aumento dei tassi e dall’ampliamento degli spread. Per quanto riguarda invece i bond, le opportunità di trovare rendimenti reali positivi sono limitate. I titoli protetti dall’inflazione rappresentano una garanzia contro il fallimento della FED nel contenere l’inflazione.
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Tognoli
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